“Camminare sulle impronte del passato non è mai una buona idea. Si finisce per scoprire che il passato non esiste, non in quella forma in cui lo abbiamo sempre pensato.”
Veronica Galletta è un’autrice siracusana che vive e lavora a Livorno. Con il suo romanzo d’esordio, Le isole di Norman (ed. Italo Svevo) ha vinto il premio Campiello Opera Prima 2020. Il tempo e la memoria sono i motivi portanti della sua storia, ambientata negli anni ’90 a Ortigia, la quasi Isola di Siracusa in cui Elena, una giovane studentessa universitaria, vive con il padre e la madre. Quando all’improvviso quest’ultima scompare senza lasciare tracce, senza neanche una lettera o un biglietto, Elena inizia a cercarla utilizzando un rituale che comprende l’uso di alcune mappe da lei disegnate, con le quali inizia a perlustrare tutti gli angoli dell’isola disseminando ovunque libri come esche per attirarla, mentre avvengono incontri e i ricordi riaffiorano come tante altre isole dimenticate. Il passato, a causa di un incidente avvenuto quando era piccola, ha lasciato cicatrici sul suo corpo, e attraverso il gesto simbolico della mappatura di luoghi mentali e di ricordi letterali Elena affida alla ricerca della madre un suo personale percorso di crescita e di elaborazione del tempo perduto . La mancanza, l’assenza sono per l’autrice una possibilità aperta alla scoperta di chi, pur essendoci stata, rappresenta comunque un mistero insondabile: “è l’assenza l’essenza di sua madre”. Il tesoro che troverà sarà quello inciso sul palmo della sua mano, la forza per andare avanti da sola dovrà trovarla in sé stessa e nel patrimonio che ha ricevuto dai genitori, come sempre e come tutti imperfetti, sia nella presenza sia nell’assenza.
Le linee della mano sono le coordinate della sua geografia interiore, i segni sul corpo sono le tracce che compongono il suo passato. L’incidente che ha segnato la sua infanzia ha lasciato impressi i solchi e i rilievi da cui è partita la sua particolare, unica e irripetibile storia, la sua personale geografia i cui confini hanno un nome: Lilliput e Laputa, Atlantide e Mompracem, i nomi che aveva dato fin da bambina alle cicatrici indelebili che costituiscono, attraverso la chiave della fantasia e dell’immaginazione, il suo nascondiglio del tesoro. Nella ricerca della madre, Elena inventa il gioco in cui “spargo per l’isola tracce di mia madre, i libri che lei amava tanto”. Lascia tracce che segnano la sua presenza come un richiamo fatto di segni che solo loro due possono decifrare e decodificare. Mappe interiori che portano nel posto del cuore. L’incidente l’ha abituata a una solitudine riempita dalla presenza dell’amico immaginario che è sempre stato lì a portata di mano. Da adulta la solitudine della madre riverbera in lei e farsene carico significa assumerne le sembianze per decifrare i pochi segni che lei andandosene ha portato con sé: la pianta di basilico nero, il suo gilet rosso e un libro: La montagna incantata. “E basta, non una lettera, una parola, un saluto”. Lasciare andare a volte è l’unica soluzione per crescere, rinunciando all’idea che esista la possibilità di controllare il caos, organizzare il flusso della vita, “ridurre tutto a colonne di libri, da mettere in ordine su una griglia da analizzare.”
articolo di Leontine Regine